Leonardo Sciascia - La Corda Pazza.pdf

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LEONARDO SCIASCIA
LEONARDO SCIASCIA
La corda pazza
Certo è, comunque, che la cultura siciliana ha avuto
sempre come materia e come oggetto la Sicilia: non senza
particolarismo e grettezza, qualche volta; ma plU spesso
studiando e rappresentando la realtà siciliana e la "sicilia-
nità" (la "sicilitudine" dice uno scrittore siciliano d'avan-
guardia) con una forza, un vigore, una compiutezza che
arrivano all'intelligenza e al destino dell'umanità tutta. E
bastino i nomi di Michele Amari e di Giovanni Verga; di
Isidoro La Lumia, Luigi Capuana, Federico De Roberto,
Alessio Di Giovanni, di Luigi Pirandello; di Francesco
Lanza, Nino Savarese, Elio Vittorini, Giuseppe Tomasi;
di Salvatore Quasimodo, nella cui poesia il tema dell'esi-
lio (l'esilio che generazioni di siciliani, per sfuggire alla
povertà dell'isola, hanno sofferto e soffrono) si lega
amaro e dolente, ma splendido nella memoria dei luoghi
perduti, a quello del poeta arabo Ibn Hamdis, siciliano di
Noto. E questa può anche essere una chiave per caplre la
Sicilia: che alla distanza di più che otto secoli un poeta di
lingua araba e un poeta di lingua italiana hanno cantato
la loro pena d'esilio con gli stessi accenti: "vuote le mani,
- dice Ibn Hamdis, - ma pieni gli occhi del ricordo di
lei".
1969
VITA DI ANTONIO VENEZIANO
Luis Rincón de Páramo: toledano, arcidiacono e cano-
nico, inquisitore di Sicilia dal 1586 (per ventitre anni,
dice il Franchina: ma il conto non torna se morì nel
1605), autore di un De ongine Inquisitionis stampato in
Madrid nel 1598 e capitato, circa un secolo e mezzo dopo,
in mano a Voltaire. "Questo Páramo, - leggiamo nel Dic-
tionnaire, - era un uomo semplice, esattissimo nelle date,
che non ometteva nessun fatto interessante, e calcolava
col massimo scrupolo il numero delle vittime umane che
il Santo Uffizio aveva immòlato in tutti i paesi." E malin-
conicamente: "Del resto tutti gli uomini rassomigliano a
Páramo, quando sono fanatici.
Esatto e scrupoloso don Luis de Páramo era non solo
nel tenere partita delle vittime e nel farne altre col suo
implacabile zelo, ma anche nel difendere e portare avanti
i privilegi del Santo Uffizio contro gli ordinamenti e le
leggi del Regno (gli anni in cui fu inquisitore di Sicilia si
infittiscono di contestazioni e conflitti giurisdizionali, e
specialmente riguardo a delinquenti altolocati che il
Santo Uffizio proteggeva in quantofamiliari) e nel richia-
mare gli uffici statali, e per essi il vicerè, ai più minuti
doveri verso il sacro tribunale. Tra questi, discendendo
dall'obbligo di allogare condecentemente gli inquisitori e
gli uffici e, non condecentemente e nemmeno umana-
mente, i prigionieri, c'era la manutenzione degli edifici: e
trovandosi don Luis de Páramo ad abitare un apparta-
mento del "castillo d'esta ciudad de Palermo" la cui cu-
cina era molto vicina "al magazen de la polvora de la
corte" (cioè al deposito delle polveri che dava nel cortile),
non si sentiva tranquillo; e ragionevolmente, visto che già
una volta l'appartamento era andato a fuoco (quando l'a-
bitava, a quanto pare, il suo predecessore: don Lope de
Tarragona) e più volte il camino della cucina. Pertanto
aveva supplicato il vicerè conte d'Alba che ordinasse e pa-
gasse le necessarie opere di muratura, "de manera che se
podia vivir sin sospecho"; ma il vicerè, parendogli forse
che ad uno che dispiegava tanto zelo ad accender roghi
toccasse di giusta misura la preoccupazione che il fuoco
gli dilagasse in casa, non si curò di una tanto drammatica
istanza o l'abbandonò senza particolare raccomandazione
al corso burocratico, costringendo l'inquisitore a mettere
mano ai fondi del suo ufficio e ad anticipare ben quaran-
totto once e tarì quattro: al cui impiego nei lavori di ripa-
razione e di sicurezza don Luis certo sovraintese con l'ac-
curatezza e lo scrupolo che poi Voltaire doveva ricono-
scergli nell'opera d'inchiostro. E attinse ai fondi del suo
ufficio in forza dell'incubo che quella polveriera "muy
cerca" gli dava, ma con l'inflessibile volontà di farsi rim-
borsare dal governo: e ci riusciva infatti parecchi mesi
dopo, col vicerè conte d'Olivares.
C'è da credere che i lavori fossero stati fatti troppo
bene, con tutti gli accorgimenti dettati a don Luis de Pá-
ramo dall'ansietà di "vivir sin sospecho"; fatto sta che
meno di un anno dopo, il 24 agosto del 1593, lo stesso
conte d'Olivares si trovava ad autorizzare il tesoriere ge-
nerale a "far la spesa necessaria per scavare li corpi morti
e robe che sono restati sotterrati nella disgrazia successa
in castel a mare di questa città"; la quale disgrazia ap-
punto era venuta dall'incendio ed esplosione del magaz-
zino delle polveri. Che poi il fuoco al magazzino delle
polveri fosse arrivato, in quel fatale 19 agosto, dalla cu-
cina dell~inquisitore, è una nostra maligna illazione; ma
non del tutto gratuita, se consideriamo con quale frenesia
dovevano andare quel giorno le cose in cucina, avendo
monsignor Páramo convitato alla sua mensa due maestri
di Sant'Agostino, il conte di Racalmuto, il barone di Sicu-
liana ed altri cavalieri (ma il conte era ospite abituale del-
l'inquisitore: imputato di aver fatto ammazzare un certo
La Cannita, al quale il conte d'Alba aveva promesso inco-
lumità, era scampato al giudizio di un tribunale ordinario
che quasi certamente l'avrebbe consegnato al boia, attra-
verso uno strenuo conflitto giurisdizionale tra vicerè e in-
quisitore: e sarebbe rimasto per circa dieci anni, formal-
mente prigioniero ma di fatto ospite, nel Castello a
mare).
Ma più illustri dei commensali dell'inquisitore erano
due prigionieri, non sappiamo con precisione se delle co-
muni carceri (che pure avevano sede nel Castello) o di
quelle del Santo Uffizio: Argisto Giuffredi e Antonio Ve-
neziano. E diremo ampiamente della vita passionale e av-
venturosa del Veneziano; ma a conferirle quel risalto chi-
sciottesco che merita - essenzialmente oltre che per acci-
dentali coincidenze - non è inutile dare controparte a
quella, suo malgrado tribolata, del Giuffredi. Perché en-
trambi ebbero tragica vita: ma il Veneziano per naturale
disposizione, per tempesta di sentimenti e gusto di li-
bertà, il Giuffredi invece per fatalità. Il primo aveva la
rima pronta e un latino agile, carico di ambiguità e dop-
pisensi, contro le autorità costituite; e la spada non meno
pronta, non meno agile, nel sostenere la ragione e il torto,
l'interesse e il capriccio. Ma il Giuffredi era rispettoso e
prudente verso i potenti, segreto nei pensieri, cauto nelle
liti. E dei suoi intendimenti, delle sue esperienze, delle
sue regole di vita lasciava ai figli un libretto manoscritto
intitolato Avvertimenti cnstiani: un singolare e prezioso
documento da cui vien fuori, tre secoli prima dei Malavo-
glia, di Mastro don Gesualdo, quello che possiamo chia-
mare l'uomo del Verga. Che è poi, effettualmente, l'uomo
siciliano; e lo ritroviamo tale e quale nel 1945, in quell'a-
cuto ragguaglio di Sebastiano Aglianò sulla Sicilia.
Questi Avvertimenti il Giuffredi li chiama anche Ri-
cordi, e non si può fare a meno di pensare al Guicciardini:
solo che i R~cordi del Guicciardini sono, come esattamente
dice Cecchi, un libro di regole contro le regole; mentre
quelle del Giuffredi sono regole precettate e inamovibili,
di cui prega e ordina ai figli la più continua e scrupolosa
osservanza ("siccome mi havete ascoltato ed ubbidito in
vita così anco farete doppo la mia Morte"). E che a lui
non siano poi valse, queste regole, a scansare le cause ci-
vili, la tortura giudiziaria, la scomunica, la morte nel car-
cere, è forse da mettere in conto della loro inamovibilità e
rigidezza: in cui appunto non si considera - come invece,
e peculiarmente, nel Guicciardini - la fluidità e contrad-
dittorietà che è nella natura, negli individui, nella società,
nella storia e i tanti "accidenti e pericoli d'infermità, di
caso, di vioienza" cui la vita dell'uomo è sottoposta.
Il primo avvertimento riguarda la roba: ed è già signifi
cativo che ne parli come "prima cosa"; tanto più che egli
stesso, quando per secondo avvertim~nto viene a parlare di
Dio, riconosce e si rammarica che non la roba ma Dio "io
dovea mettere per ogni ragione pel primo". Il concetto
che ha della ro6a è di cosa da Dio imprestata a lui, e da
lui ai figli, e dai figli ai nipoti: da usare, quindi, con tutte
quelle precauzioni che consentano l'intatta trasmissione,
poiché il malo uso o il consumo di essa sarebbe un vero e
proprio furto; a danno di Dio, oltre che degli eredi. E a
questo concetto si lega l'avvertimento relativo al commer-
cio: "Di mio consiglio procurate fuggire ogni sorta di
mercanzia, e credetemi che non è la migliore mercanzia,
né la più lecita, del risparmio, del quale non si ha a far re-
Stituzione; ed in detto risparmio non si corre pericolo di
perdere mai". E quando passa a citare proverbi in dialetto,
a prova della universale saggezza del suo consiglio, si ha
il senso di sentire padron 'Ntoni e di intravedere il barco
che va a fondo col carico di lupini. Né il Giuffredi ha
nelle banche più fiducia che nel commercio: tenervi pic-
cole somme, può anche andare; ma non il grosso. In
quanto alla giustizia, "il più sicuro è rimettere ogni torto
a Dio"; e guardarsi dal contendere con funzionari e con
sbirri, e anzi farseli amici con reFalie e con ossequio, poi-
ché "con una cattiva e talhora alsa relazione vi possono
fare gran danno". Mormorare del governo è poi la cosa
più vana e la maggior pazzia del mondo; e così dei preti
"per qualsivoglia cosa cattiva che di loro udiste o vede-
ste". Conviene, di conseguenza, evitare ogni dimesti-
chezza: per non perder il rispetto che a loro si deve come
mmlstri di Dlo.
Con più profondità e verità dice poi del matrimonio e
della famiglia; e anche qui viene da pensare ai Malavo-
glia, che è l'opera in cui trova più alta espressione quella
dolorosa e anslosa pietà, quella religione della famiglia
che e componente prlmaria del modo di essere siciliano (ma
con tutte quelle sotterranee implicazioni, esplosioni e re-
more che il Verga non sospettò). E c'è anche in Giuffredi
naturalmente, quel considerare la donna come oggetto
che tuttora pesa nella vita sociale del Sud: ma temperato
dalla intensità e vivacità dei sentimenti, de~li affetti. E c'è
un luogo degli Avvertimenti da cui sembrano affiorare
tante accorate figure femminili del Verga, quando il Giuf-
fredi raccomanda ai figli di mai "passar l'hora del ritorno:
perché io vi giuro per la santa Fede che io debbo a Dio,
che una delle cose, perché rendo maggiormente grazie
alla sua divina bontà, d'havermi piuttosto fatto huomo
che donna, è per l'affanno che sente la povera donna
quando è passata l'hora del tornare il marito a casa, e non
torna; affanno veramente grandissimo. E qual maggior af-
fanno può essere il vedere partir di casa uno che si ami di
amor vero, e vedersi passar l'hora del ritorno, e farsi
notte, e dubitar di disgrazia, e non vederselo ritornare?"
Da quest'uomo ricco di sentimento ma irto di diffi-
dente prudenza viene anche la prima voce che si sia levata
nel mondo contro la tortura e la pena di morte. Rivolgen-
dosl partlcolarmente al figlio Glovanni, che era avviato
alla carriera giudiziaria, egli scrive: "ma voglio ben dirti
G., e COSI lo dico agll altrl, che non condanniate mai nes-
suno ad essere frustato... se non è per cosa più che grande,
anzl, potendo, per qualsivogha cosa non date mai morte a
nessuno", poiché "questa vita che è di Dio io la vorrei la-
sciar tor da lui". E con un calore e una concitazione in cui
si sente l'esperienza della tortura, e per averla subita e per
averla vista dare tante volte nella sua qualità di segretario
dell'Inquisizione, raccomanda di "venir quasi così mal vo-
lentieri a dare altrui la corda, come a dargli morte; perciò
che oltre al pericolo in cui si pone uno, confessando, di
morire, si pone anche a pericolo di rompersi il collo, rom-
pendoglisi, come l'ho veduto io talvolta..." Ed è evidente
da questi frammenti, come dal contesto dell'avvertimento
da cui son tolti, che il Giuffredi aveva non solo precisa
coscienza che la pena di morte, la tortura, la fustigazione
fossero offesa a Dio e alla dignità umana, ma anche la
convinzione propriamente giuridica, tecnica, che la con-
fessione estorta non valesse ai fini della verità, della giu-
stizia.
La vita di Antonio Veneziano, coetaneo ed amico del
Giuffredi, è come una puntuale negazione degli Avverti-
menti cristiani. Violento, sensuale, scialacquatore, carico di
debiti (e di mal francese, secondo un suo tardo biografo),
incostante negli affetti familiari e negli amori, assoluta-
mente sprovvisto di rispetto per le istituzioni e per gli uo-
mini che le rappresentavano (e nei riguardi di costoro,
presumibilmente, non privo di vocazione aretinesca):
questo era Antonio Veneziano. E lo accomunano al Giuf-
fredi l'esercizio di un petrarchismo freddo e prevedibile,
che però il Veneziano mirabilmente trasfonde e riscatta
nelle poesie in dialetto; il gusto causidico, che nel Vene-
ziano ha punte di scetticismo e di divertimento mentre
nel Giuffredi, che le cose della giustizia vedeva dal diden-
tro, sottende greve ansietà e malafede; la fine sotto le ma-
cerie del Castello. Che poi entrambi siano stati vittime
del Sant'Uffizio, è ipotesi gratuita anche se suggestiva; e
contiene pochissimi elementi probanti, e prevalentemente
d'ordine psicologico: per il Veneziano, che è quasi impos-
sibile un uomo così pronto alla satira e così arrisicato ab-
bia mantenuto per tutta la vita un rispettoso o prudente
La corda bazza La corda pazza 975
atteggiamento nei riguardi dell'Inquisizione e di persona-
lità come quella del Páramo, fanatica fino al grottesco;
per 1l Gluf redi, che la repugnanza per il suo mestiere di
scriba del Sant'Uffizio agi probabilmente come concausa
di un allontanamento o rottura, con la conseguente per-
dita di quella qualità di familiare che sarebbe valsa a sot-
trarlo alla giustizia ordinaria, nelle cui mani invece più
volte lo troviamo.
Le disavventure giudiziarie del Giuffredi cominciano
crediamo, nel momento in cui maturo d'anni e d'esPe-
rienza, sicuro di sé e della macchina delle leggi, si da a
speculare in margine alla cosa pubblica. Il Veneziano
nelle vicende giudiziarie si trova immerso invece da gio-
vamsslmo, dentro una numerosa e litigiosa famiglia. Il
magnifico Antonio Veneziano, suo padre, ebbe tre mogli
e nove figli: uno dalla prima, uno dalla seconda, sette
dalla terza. Antonio, battezzato col nome di Antonello
era il terzo dei sette figli nati da Allegranza Azolino; la
quale doveva essere molto giovane, se di parecchi anni so-
pravvisse al marito.
Antonello (poi, forse dopo la morte del padre, chia-
mato Antonio) nacque a Monreale il 7 gennaio del 1543.
O meglio: il~7 gennaio fu battezzato; e gli furono padrini
Gian Antonio Fasside, dottore in teolo~ia e vicario in
Monreale del cardinal Farnese, e il magni~ico Filippo Me-
lisenda; madrina Norella La Autilia. Il vicario del Farnese
era, effettualmente, la più alta autorità: questa provenen-
dogli dall'arcivescovo-abate che aveva la città e il territo-
rio di Monreale in "directum plenum et liberum domi-
nium" (anzi: "demanium"), per la totale traslazione di
poteri fatta dal normanno Guglielmo II alla chiesa mon-
realese. Da ciò, nelle vicende giudiziarie, la continua di-
chiarazione del Veneziano di una residenza e cittadinanza
palermitana, per non essere giudicato da un foro improv-
vlsato e arbltrarlo quale doveva essere quello di Monreale,
composto prevalentemente da forestieri ai quali la lontana
autorità del Farnese lasciava modo di fare il più profitte-
vole giuoco tra le fazioni e i personalismi locali. E in
quanto all'autorità del vicario, c'è da dire che il trovarlo a
far da padrino in un battesimo già è segno di una sua in-
clinazione al comparaggio e alla faziosità. D'altra parte,
un così autorevole compare di battesimo dice del grado
sociale e della potenza dei Veneziano; le cui orlgmi, come
qualcuno afferma, saranno state venete: ma già alla fine
del secolo xv erano ben radicate a Monreale in una larga
parentela e in una solida proprietà immobiliare. Indubbia-
mente però le sorti della famiglia toccarono il vertice di
fortuna con Antonio, padre del poeta, che fu mastro no-
taro della Curia e pretore, e con suo fratello Antonino, ar-
cidiacono. Dalla nidiata di figli che il magnifico Antonio
ebbe da Allegranza Azolino, venne la disgregazione della
roba e la decadenza.
Nel 1547, quattro anni dopo la nascita di Antonello e
prima che l'ultima figlia, Maria, fosse battezzata, morlva
Antonio Veneziano. Con testamento fatto in punto di
morte (7 luglio 1547) chiedeva per sé una tomba nella
chiesa di San Vito e una messa settimanale, da celebrarsl
il venerdì, e dava ai figli e alla moglie, equamente, la
roba. Di quella dei minori, nominava curatore e tutore 11
reverendo Antonino, suo fratello.
L'influenza dello zio, congiunta probabilmente al di-
sgusto di una vita familiare che doveva essere alquanto
tempestosa, consigliarono Antonello, che da ora m poi
chiameremo Antonio, ad entrare nel collegio palermitano
della Compagnia di Gesù: a dodici anni, nel 1555. Com-
piuto a Palermo il corso di grammatica passò al collegio
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