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Paolo

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STORIA MERAVIGLIOSA DI SAN GERARDO

INTRODUZIONE

I santi, come santi, non hanno storia. La loro vita si riassume in un colloquio perenne con Dio al di là del tempo e dello spazio: quindi, della storia. A qualunque secolo appartengano, al trecento o al cinque­cento, al settecento o al novecento, essi sono i contemporanei di Cristo di cui ritessono l'itinerario spirituale.

Ma i santi furono uomini anch'essi ed ebbero quindi i loro im­pulsi, i loro contrasti, i loro ribollimenti interiori. Ebbero, cioè, una sto­ria che si identifica con la loro individualità terrestre; una individualità resa più spiccata dalla posizione di lotta che assunsero con gli uomini e con le cose, con le correnti di pensiero e di azione.

Sotto questo aspetto, niente di più forte e temprato della personalità propria dei santi: essi sovrastano sui contemporanei come scogli sul mare e rischiarano il cammino dei posteri come fari di luce.

Ogni santo ha la sua luce, come le stelle del firmamento. La sorgente è la stessa: Dio, ma la sua luce, passando attraverso il prisma delle differenti personalità, si scompone e ricompone, variando d'intensità e grandezzao o, se più vi piace, una è la voce di Dio che risuona nelle profondità delle anime, ma questa voce si condiziona alla temperie spi­rituale di ognuna, acquistando il tono e l'accento di un messaggio in­dividuale, inconfondibile con gli altri.

Solo chi può ricostruire quella temperie spirituale che forma la fi­sionomia morale del santo, è sicuro di cogliere qualche nota del suo messaggio individuale, maturato nei silenzi di Dio, e ritrasmetterla agli uomini per pungolarli a nobili imprese. Altrimenti quella voce diventa anonima e si perde nel deserto.

Ecco perché nel tracciare la presente biografia che vuole illustrare uno dei santi più singolari della Chiesa, ci siamo preoccupati di coglierne, prima di tutto, ogni inflessione personale che valesse a ca­ratterizzare la sua anima e la sua attività.

Ciò spiega l'importanza eccezionale da noi attribuita alle sue lettere e ai suoi scritti: preziosissime confessioni di un'anima cri­stallina che non ebbe mai una piega dietro cui nascondere qualche cosa di se stesso e parlò solo e sempre quando era saturo del fuoco candente di Dio. Anche se non tutti autografi, anche se ritoccati o rielaborati da correttori non troppo scrupolosi, tali scritti conservano sempre il sigillo del cuore che li dettò. Qualunque cosa essi esprimano, fosse pure una celia, sono sempre il riflesso autentico della storia di un'anima nella sua ascensione ininterrotta verso Dio.

Dopo l'auto-testimonianza del santo, abbiamo indagata la testi­monianza dei contemporanei i quali narrarono ciò che videro, senza pretendere d'inquadrare le loro impressioni soggettive dentro schemi preconcetti, o ampliarle nell'alone della leggenda.

Tra queste testimonianze abbiamo posto nel dovuto rilievo quella del padre Gaspare Caione, che ebbe la fortuna di guidare il santo negli ultimi quindici mesi di vita e, tra il 1755 e il 1764, ne raccolse le memorie per incarico dello stesso S. Alfonso. Il padre Caione, nel­l'assolvere il suo compito, ha avuto il merito di non sovrapporre mai le proprie vedute personali alla realtà concreta dei fatti di cui trattava. La stessa frammentarietà delle notizie raccolte e la lentezza nel racco­glierle ha facilitato quel suo distacco prospettico dall'argomento, neces­sario per non deformare la verità. Ebbe anche il merito di conservare, quasi nella loro veste primigenia, le testimonianze delle persone che furono in rapporto col santo: amici, direttori, conoscenti.

Ognuno comprende il valore della testimonianza di un padre Giovenale, confessore, consigliere, superiore di Gerardo nei periodi più critici della sua vita, come durante la calunnia o quella di un Nicola Santorelli, confidente dei suoi segreti o quella dei padri Ca­faro, Fiocchi e Margotta che gli furono direttori ed amici. Nessuno, dunque, potrà meravigliarsi di vedere tali memorie poste alla base della presente biografia.

Ma noi abbiamo tenuto presenti anche altri lavori, specialmente la Vita scritta dal padre Antonio Tannoia intorno all'anno 1805, sempre però subordinandola ai manoscritti precedenti in caso di di­vergenza e sempre distinguendo la nostra responsabilità dalla sua, quando ciò che narrava non ci sembrava sufficientemente suffragato da prece­denti indagini storiche.

A queste fonti scritte abbiamo aggiunto le testimonianze orali confluite nei processi apostolici iniziati nel 1843 nelle diocesi di Muro e di Conza e chiusi nel 1856, durante il primo centenario dalla morte del santo. Si comprende benissimo quale valore abbiamo potuto attri­buire a siffatte testimonianze, depositate dopo l'avvicendarsi di almeno tre generazioni, quando i ricordi autentici si erano affievoliti e dispersi o avevano subito l'influsso di elementi eterogenei di dubbia provenienza.

Maggiore importanza abbiamo accordato alle tradizioni di am­bienti chiusi, come i monasteri, dove gli anelli delle tradizioni si sal­dano più facilmente tra loro. Specialmente abbiamo valorizzato quelle tradizioni che trasmettono intatta la fisionomia del santo come uscì

dalla penna del padre Caione. È una fisionomia troppo caratteristica per non imprimere un sigillo inconfondibile di autenticità alla sua attività di apostolo e di taumaturgo.

Tra le numerose biografie non potevamo trascurare il lavoro di­ligente e paziente - forse non altrettanto intelligente - del padre Kuntz pubblicato in Roma nel 1893.

Abbiamo cercato anche di dare l'opportuno risalto all'ambiente che fu in comunione col santo, sia per la, città natale, sia per il regno di Napoli e sia per l'Istituto in cui visse e morì.

A tutti questi dati della storia e della cronaca contemporanea abbiamo aggiunto alcune leggende col preciso scopo di non trascurare l'apporto spontaneo del sentimento popolare che coglie, per istinto, gli aspetti caratteristici dei suoi eroi e li proietta nel mondo incantato della fantasia. Non sono fatti storici: perciò, di volta in volta, ne av­vertiamo - con discrezione - il lettore, ma non sono nemmeno inutili dal momento che ci permettono di penetrare, forse più delle investiga­zioni erudite, negli intimi recessi dei santi. E questo valga di risposta a quegli amici che ci avevano esternata una certa sorpresa nel vederci includere nel testo episodi e miracoli respinti poi in sede critica. Ma senza quei contorni leggendari, ci sembrava che il nostro santo perdesse qualche cosa della sua umanità. Di quell'umanità prestigiosa che si affaccia prepotente alla ribalta perfino in certi racconti che toc­cano i confini dello stravagante e dell'assurdo. Anche in questi casi, se guardiamo oltre l'elemento visivo necessariamente coreografico, av­vertiamo il soffio o segreto dello Spirito che afferma la sua presenza nel­l'inconfondibile stile gerardino.

Con tali criteri, frutto di esperienze nostre ed altrui, abbiamo tirato su queste pagine particolarmente laboriose col preciso scopo di costrin­gere il nostro santo a scendere dai suoi padiglioni rutilanti di luce per camminare ancora tra noi, passeggero tra i passeggeri, come nei giorni di Muro, di Deliceto e di Materdomini.

Perché noi abbiamo bisogno di sentirti ancora vicino, o nostro santo, vicino come sofferente e tentato, per apprendere la tua lezione di umiltà e di dolore. Oggi più che mai.

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UN UOMO INUTILE

Le campane irruppero fragorose nel cielo quando i missionari si levarono a benedire la folla ammassata tra la cattedrale e il ca­stello, si adagiarono ai piedi dell'Addolorata, issata sul calesse come un trofeo, spronarono i cavalli e scomparvero in un nuvolo di polvere. Allora il popolo, fino a quel momento rimasto senza fiato, scoppiò in un lungo irrefrenabile applauso, rotto qua e là da urli e singhiozzi. Muro, tutta Muro, era lì a tributare il suo ringraziamento a quello stuolo di missionari che per tanti giorni si era prodigato per il suo vantaggio spirituale.

Mancava solo un giovane ventitreenne alto e pallido ed era colui che più degli altri aveva desiderato quel giorno: Gerardo Maiella. Era a casa sottochiave e la chiave si trovava nelle tasche della mamma, uscita di buon mattino. Quando se ne accorse, era troppo tardi: la porta era sbarrata e l'alta finestra dava a picco sulla roccia. Le campane intanto continuavano a rincorrersi per l'aria serena di maggio, acuendo il suo desiderio e il suo strazio.

Che fare? Coi gomiti puntati sul davanzale, pensò: poi ebbe un'idea, l'afferrò a volo, prese un lenzuolo dal letto e si calò penzo­loni nel vuoto. Aveva lasciato scritto, con la meta del viaggio, l'addio irrevocabile al mondo: “Non pensate più a me; vado a farmi santo”. Tra il monte Pierno che si profila a sinistra col suo bel santuario mariano e il monte Croce, a destra, sfumato nell'azzurro, su quella rocca donde si gode il più vasto panorama della Lucania, Gerardo raggiunse la carrozza dei missionari. Ed era il luogo più adatto: i cavalli procedevano lenti in salita, mentre il santuario mariano in­coraggiava il nostro fuggitivo che dall'infanzia aveva inseguita a perdifiato il solo ideale della Croce.

Appena scorse a distanza la macchia scura dei missionari, an­nidati ai piedi della Vergine che luccicava al sole con le sue sette spade, raccolse le ultime forze e si mise a gridare, correndo: « Padri, aspettatemi! ». Era così stanco, così trafelato che il padre Cafaro, vin­cendo la sorpresa, fece fermare la carrozza: « Torna a casa, figliuolo, te lo dico per il tuo bene: questa vita non è fatta per te».

E gli altri in coro: « Torna a casa, torna a casa ! ».

Ed egli: «Provatemi e, se non sono buono, mi rimanderete a casa».

Non sappiamo cosa avvenne. Forse rimase solo sulla strada de­serta, raggiungendo a piedi la meta; forse, ed è più probabile, trovò posto nella carrozza, perché il padre Cafaro giudicò più facile per­suaderlo appena arrivati a Rionero. Fatto sta che ricompare nella nuova missione in qualità di serviente. Lavava i piatti, spaccava la legna, rattoppava le vesti, sempre sereno, gioviale, tranquillo, pie­namente soddisfatto. Dava tutto e non chiedeva nulla, nemmeno un pezzo di pane, o una coperta: mangiava gli avanzi e dormiva per terra, nei sottoscala, confidando solo in Dio e confidando contro ogni speranza. Perché il padre Cafaro non tralasciava occasione per ri­petergli in tutti i toni: « Torna a casa. È meglio per te e per noi ». E lui tirava diritto per la sua strada, incrollabile come una montagna. Ma un giorno che il Padre gli aveva ricantato per 1 centesima volta lo stesso ritornello, gli si gettò ai piedi, aggiungendo alla solita do­manda, una specie di minaccia disperata: « Se non mi accettate, mi vedrete ogni giorno accattare coi poveri alla porta del vostro col­legio ».

Il padre Cafaro ne fu scosso, non convinto. Rifletté alquanto, poi decise d'inviarlo a Deliceto. Il collegio che era sinonimo di fa­tica, di stenti e di miseria, sarebbe stato il banco di prova della sua volontà. Avrebbe ceduto, ne era sicuro, liberando l'Istituto da un soggetto malato e quindi inutile e se stesso da un seccatore ostinato. E se avesse resistito? Ma questo non passava nemmeno per la testa all'austero padre Cafaro: tanto era convinto che quel povero giovane allampanato, che tirava l'anima coi denti, non avrebbe concluso nulla di buono nella vita.

Prese la penna e fece le commendatizie per il superiore. La tra­dizione vuole che abbia scritto: « Ti mando un soggetto inutile... ». Dopo sei anni, sul letto di morte, quel soggetto inutile verserà lagrime amare per le spese della sua malattia: « Ho rubato finora il pane della comunità; adesso le rubo anche il denaro ».

E supplicherà il medico di desistere da quei rimedi costosi. Non ne valeva la pena: la sua vita era stata inutile.

Ma alla sua morte, i diseredati dalla fortuna dissero: «Abbiamo perduto il nostro padre!».

I provati dal dolore dissero: « Abbiamo perduto il nostro con­solatore !».

I fanciulli, le vergini, le madri, gli operai dissero: « Abbiamo perduto il nostro benefattore!».

E tutti sfilarono, piangendo, davanti alla sua bara.

2

L'OSCURA RADICE

Il cognome di Gerardo non fu Maiella, come lo pronunziarono i Muresi, ma Machiella, come risuonò per secoli sulla bocca degli an­tenati, prima sui monti di Picerno e poi, verso la fine del secolo XVI, sui monti di Baragiano. Qui lo incontriamo la prima volta nel libro dei battezzati della parrocchia di Santa Maria Assunta il 14 settem­bre 1578, quando un certo Antonio Machiella presentò al fonte bat­tesimale la figlia Allegranza e poi, il 21 dicembre 1580, il figlio Ovi­dio. Tutte e due le volte il libro, accanto al nome di famiglia, annota il luogo d'origine: « della terra di Picerno ».

Il cognome è tutta la storia degli avi, umile progenie di pastori e di artigiani: Machiella, col suo sapore di bosco, ricorda appunto i luoghi delle loro trasmigrazioni attraverso una delle zone meno note e più romantiche d'Italia: case addossate ai burroni, sentieri ripidi e roc­ciosi, campi e prati a saliscendi coi torrenti che rumoreggiano a valle e il sole che sorge e muore tra le gole selvagge, cariche di fiere leggende.

Da questo ceppo di modesti braccianti nacque il padre del nostro santo, di cui abbiamo cercato invano negli archivi un dato personale qualunque che rendesse meno incerta la sua immagine. Tutte le notizie, racchiuse nelle fedi battesimali dei figli e in un paio di an­notazioni fugaci del catasto di Muro, si riducono a un nome: Do­menico; un cognome: Machiella; e un riferimento geografico: della terra di Baragiano.

Da Baragiano passò a Muro Lucano verso i primi del 1700, forse per motivi economici. Certo, non ebbe nulla dai suoi che, probabil­mente, non erano in grado di dargli altra cosa oltre al mestiere. Così, dovendo fin da giovane provvedere a se stesso e non avendo nulla da perdere andando altrove, un bel giorno, s'infilò al braccio tutto il suo corredo di sartore ambulante e discese, come gli avi, i monti della prima adolescenza, in cerca di fortuna. Gli si aprì davanti una pia­nura bislunga tutta valli e valloncelli e dune solitarie in fuga verso l'orizzonte; poi gli venne incontro un fiumicello con le acque fangose e ne risalì lentamente il corso, sfiorando una catena spolpata di monti. A un certo punto, il fiumicello - era il Platano - piegava decisa­mente a nord-est; doppiava una protuberanza scogliosa e nascon­deva le sorgenti negli squarci apocalittici del terreno. Ma, prima di addentrarsi in quelle forre paurose, veniva a lambire un mucchietto di case che scendevano in frotta verso il fiume, come pecorelle asse­tate. Era il Pianello, il quartiere più antico di Muro, quasi isolato dal resto della città.

Questa sorge più su, a mezzacosta, sfruttando ogni masso, ogni picco, ogni rigonfiatura del suolo, fino al nero castello medievale e al tozzo campanile della cattedrale. Ecco Muro: una bianca catasta di case, picchiettate di verde; la Muro tranquilla e sonnacchiosa, anche se posata sugli abissi, i quali anzi le conferiscono qualche cosa di fia­besco, come se la mano ingenua di un bambino avesse allineato così tutti quei balocchi di carta per un puro gioco di fantasia. Dai muri di cinta occhieggia la vite, il fico, il mandorlo e sui cortili assolati l'olivo getta a ogni sussurro di vento una nota di pace. Questa è la Muro di ieri e di oggi; la Muro che i secoli hanno appena sfiorata, lasciandola intatta nel suo anfiteatro di rocce. Si avvicendano le generazioni degli uomini; rimangono identici gli usi, i costumi e la patina del tempo.

Così la vede il turista moderno che sale rombando con la sua fuoriserie, così la vide il nostro oscuro viaggiatore che attraversò il grottone delle Ripe ed entrò in quelle viuzze scoscese.

L'ascesa fu lenta e difficile attraverso umiliazioni e fatiche, a con­tatto con persone sconosciute, con padroni esosi e sprezzanti, lavo­rando senza posa e dormendo per terra o sui banconi tarlati. Così raggranellò quei pochi carlini che gli permisero di prendere in affitto, nell'ambito della parrocchia di S. Andrea, uno stanzone tutto fare con l'impiantito di terra battuta. Lo popolò di qualche utensile di cucina, una madia, un cassettone, un vasto letto di legno. Quando questo fu pronto, era il giorno delle nozze.

Quella mattina Domenico si unse i lunghi capelli alla nazzarena, indossò il giubbone bianco, orlato di rosso, i calzoncini corti, le calze di lana, le scarpe con la fibbia d'ottone, si gettò in testa il lungo ber­retto e si avviò in chiesa con aria spavalda. Tornò verso mezzogiorno con la venticinquenne Benedetta Galella, una contadina di Muro che condivideva con lui il sentimento gagliardo della famiglia, la forza rassegnata al dolore e la fiducia illimitata nella Provvidenza, neces­saria per sorridere ai figli che si affacciano alla vita.

Nel 1712, nacque Brigida; nel '16, un maschietto di nome Ge­rardo, volato al cielo dopo appena otto giorni; nel '17 Anna-Elisa­betta; nel '23, ancora una femminuccia di nome Elisabetta. E il Si­gnore benediceva visibilmente la famigliola con la fusione perfetta di cuori e di volontà e forse anche con la fortuna esteriore. Sta a dimostrarlo il fatto che in quel tempo si trasferì a pochi passi dalla chiesa di San Marco, forse a Vico Celso, nel cuore pulsante della vita cittadina. Nel piazzale antistante si svolgeva il mercato; qui il mastro giurato, la prima autorità del paese, teneva le assemblee popolari per deliberare su affari di pubblico interesse. Il popolo si raccoglieva a suon di campana, o veniva chiamato dalla voce del banditore che si recava di porta in porta. Il governo sedeva all'aperto intorno a un desco di pietra, detta « la pietra del pesce »; qui ogni anno, d'estate, si proclamavano gli eletti del popolo, veri assessori comunali, e qui si vendevano all'asta i poveri utensili di cucina, sequestrati ai con­tribuenti morosi.

Ma Domenico rifuggiva dal chiasso. La tradizione lo vuole ta­citurno e appartato, tra la chiesa e il negozio. Passava le giornate agucchiando su stoffe nuove e panni vecchi, mentre la buona Bene­detta andava e veniva dalla campagna, o tornava dal bosco con una bracciata di legna che gettava accanto al focolare. A sera si racco­glievano assieme in preghiera, e dormivano assieme nell'immenso let­tone. Solo Elisabetta dormiva in disparte nella culla, ma la culla pendeva sul letto, raccomandata con corde alla trave. Bastava un soffio e scivolava silenziosa nella notte.

Qualche volta si faceva sull'uscio la barba fluente del padre Bo­naventura che rideva compiaciuto di tanta semplicità e, più, della perfetta letizia che avrebbe rallegrato il cuore di San Francesco. Allora Domenico si alzava a baciargli la mano, le piccole gli frulla­vano attorno e Benedetta cercava invano di trattenerlo più a lungo, - ah sempre di corsa quel suo fratello ! - ma egli già si allonta­nava con un rumore di tonaca sbattuta.

Stavano così le cose, quando una nuova vita si accese nel seno di Benedetta e una nuova gioia nel cuore del marito in un crescendo continuo di preghiere e di speranza. « Sarà un maschietto ? », si chiedevano ansiosi gli sposi, e ripensavano al loro angioletto vo­lato al cielo dieci anni prima, lasciando nella loro anima tanto rimpianto.

Finalmente la mattina del 6 aprile 1726, alle prime luci del­l'alba, con un piccolo, breve lamento, due occhi incantati di bimbo si aprirono alla terra, fissandosi sereni lassù, quasi a rimirare il posto da cui era venuto.

La cattedrale era già aperta; gli operai, intenti ai restauri, sali­vano e scendevano dalle impalcature traballanti, in un turbinio di calcinacci e di polvere. Ma i muratori avranno sospeso il loro cupo martellare quando l'arciprete don Felice Coccicone versò tre volte l'acqua lustrale sul capo del neonato, scandendo ad alta voce la formula rituale : « Gerardo, io ti battezzo nel nome del Padre, del Figliolo e dello Spirito Santo». Era il sabato di passione, la chiesa si velava a lutto e un'aria di tristezza si posava sugli uomini e sulle cose. Penetrava nell'anima stessa di Gerardo coi lenti rintocchi del­l'agonia del Redentore e la invitava a staccare la marcia sulla via della Croce. Subito, senza perder tempo, come avesse il presentimento della brevità della sua vita.

Una tradizione molto tardiva lo vuole asceta nella culla : è lì, sereno e beato, ad aspettare che mamma Benedetta se lo stringa al seno, orgogliosa e felice. Allora schiuderà leggermente la bocca, docile ai richiami della natura. Una volta al giorno e non più. Ma al venerdì si ricompone con le mani incrociate sul petto, incurante del cibo, indifferente alla vita che gli si svolge intorno. Allora è inutile che la sorella Brigida se lo prenda caldo tra le braccia, ballonzolandolo per la stanza; inutile che mamma Benedetta gli sprema qualche goccia di latte sulle labbra rosate: si contorce, volgendo altrove la testa quasi indispettito. E la madre intuisce il mistero della presenza di Dio in quell'anima e lo bacia a lungo, intensamente sul petto, escla­mando: « Figlio mio, sii benedetto ! ».

È un'ingenua fantasia popolare che anticipa fatti e prodigi del­l'età matura, eppure racchiude qualche cosa di vero: la precocità con cui Gerardo corrispose alla grazia. Se non nacque santo, lo di­venne ben presto con un movimento spontaneo, ma sempre più attivo e cosciente dell'anima, stimolata da forti sentimenti emotivi e da un'immaginazione vivace. Sentì nella chiesa, attraverso il culto li­turgico, come una comunicazione diretta del suo essere con Dio e tutto ebbe un linguaggio per lui : i ceri accesi e i paludamenti sa­cerdotali, la voce impetuosa dell'organo e lo squillo delle campane, i canti solenni delle feste e le lugubri lamentazioni della settimana santa. E tutto volle riprodurre nell'intimità delle pareti domestiche. Volle il suo altarino con le candele e le immagini di santi, schierate come in una parata. Al centro, l'arcangelo San Michele, con la spada sguainata, incalzava il demonio dentro un vortice di fiamme. E volle ancora - conviene notarlo perché c'è in germe il carattere specifico della sua spiritualità - volle ancora l'altare-sepolcro del giovedì santo. Lo costruiva con le sue mani, suggestionato dalla croce velata, dal verde pallido di grano e dai lumi che si consumavano in muto olocausto a Dio.

Poi passava e ripassava da una parte all'altra dell'altare, genu­flettendo e modulando la voce. Infine piegava a terra le ginocchia, alzava gli occhi al cielo e pregava. Intanto, fra i battenti socchiusi, gli occhi furbetti delle sorelle foravano il buio, trattenendo il respiro. Lo spiavano dappertutto le biricchine, e dappertutto lo scovavano, perfino negli angoli più remoti, tra la sedia e il tavolino, tra la pa­rete e la legna ammucchiata, dove, coperto da una nuvola di fumo, genufletteva a lungo, immobile come un angelo. Poi correvano a raccontarlo ai vicini, ai parenti, agli amici e anch'essi venivano a godersi lo spettacolo. Ci venne dal portone accanto la giovane signora Caterina Zaccardo, sposa del bracciante Vincenzo di Napoli; ci venne l'amico di casa l'orefice Alessandro Piccolo. Ci vennero spe­cialmente i coetanei con la lieta spensieratezza degli anni. Lo chia­mavano da fuori e, quando non sentiva, gli correvano vicino. Allora si riscuoteva, preparava in fretta l'altare e dava inizio alla messa, inentre la piccola assemblea, in piedi, era tutt'occhi a guardare. Poi genuflettevano e pregavano insieme.

Altre volte filavano cantando per le stradicciole deserte: Ge­rardo andava avanti portando una piccola croce. Più spesso, quando il tempo era bello, salivano sui pianori assolati lungo i margini occi­dentali della città, o penetravano nel giardino della famiglia De Cillis. Egli tirava fuori il suo armamentario di candele e di santi e prepa­rava proprio lì, sotto i vecchi alberi che gettavano le nuove gemme e sul prato che rinverdiva, il suo altare. Si arrampicava sui rami dei mandorli in fiore e vi collocava le candele ; affiggeva la croce alla scorza del tronco ; più in basso, sui sassi piazzava il coperchio coi santi.

Era l'ora particolarmente solenne in cui l'ombra, scendendo dai monti, si allungava sulla città e sulla pianura, tagliando l'una e l'altra con una linea di luce e d'ombra; poi la luce si spostava sempre più verso oriente; risaliva sui monti opposti, guizzava sulle vette e scom­pariva nell'aria. Allora Gerardo accendeva le candele e lo spettacolo diveniva più suggestivo : grappoli fioriti luccicavano, come stelline bianche, con le venette sanguigne e tutto l'albero sembrava un can­delabro d'argento, sospeso sotto la volta silenziosa del cielo. Dalle finestre vicine qualcuno si fermava a guardare; qualcuno, tornando dai campi, sostava un momento, mentre la cantilena dei fanciulli si perdeva nella valle già buia.

Saremo forse sorpresi di tutto l'elemento sensibile che avvolge questa come le scene precedenti. Sembra quasi che Gerardo non sappia pregare senza tradurre in forme spettacolari il suo mondo interiore, senza in qualche modo eccitarsi davanti alle architetture della sua fantasia. Donde l'origine di tale atteggiamento ? Alla base c'è, e in maniera determinante, la ricchezza naturale della sua anima, ma ad essa vanno aggiunti l'influsso del mondo esterno che gli parlava col frastaglio delle rocce e l'eco lontana delle acque e il colore locale delle tradizioni religiose, riboccanti di sentimenti istintivi. Ogni mistero riviveva attraverso il folclore popolare : specialmente il mistero del Pane Eucaristico, che parlava a quelle anime semplici col fascino dell'amor di Dio. Al giovedì, quando sbocciavano le prime stelle, come per incanto, i davanzali si accendevano di lumi. Così dal castello alle pendici del monte, di gradinata in gradinata, la città palpitava di mille fiammelle che cantavano l'umile ringraziamento di tutto un popolo al Signore. Questa tradizione, ora purtroppo scom­parsa, può fornire più di una spiegazione alla scena del giardino De Cillis.

Ma vi è in Gerardo qualche cosa che trascende gli elementi sen­sibili e lascia intravedere l'ispirazione dall'alto: l'affacciarsi dei sim­boli che parlano di sacrificio e di morte. La sua infanzia serena sembra già percorsa da brividi forieri di tempesta. Era la voce di Dio che lo addestrava alla prova ? Possiamo credere di sì, perchè questa venne quasi subito e lo trovò molto ben preparato.

Dopo anni di stenti e relativa tranquillità, la sua famigliola co­minciò a dibattersi prima nelle ristrettezze, poi nella miseria. Forse in conseguenza di questa, dovette sloggiare dalla casa di Vico Celso e prendere un'altra stanza alla Raia del Castello, N. 63, pagandone l'affitto annuo di venti carlini a un certo Giuseppe Galella, suo lon­tano parente. Ma le cose andarono in peggio. Si resero necessari nuovi sacrifici collettivi e nuove restrizioni nel vitto già scarso. Queste restrizioni e la tristezza del babbo dovettero produrre una forte im­pressione nel cuore del fanciullo che già toccava, coi sette, otto anni, l'uso di ragione. Lo dicevano certe sue occhiate silenziose, seguite da scoppi improvvisi di tenerezza verso i genitori e specialmente certe limitazioni insolite che s'imponeva nel cibo. Qualche volta lasciava intatto fino a sera il pezzetto di pane che la mamma gli aveva preparato al mattino, quando usciva per i campi; qualche volta ne cedeva una parte alle sorelle, dicendo di non aver più fame, di aver mangiato a sufficienza. Ma intanto la sua faccina diveniva color di cera e la testa sembrava emergere sproporzionata dal cor­picciolo sottile. Eppure, sempre allegro come prima; sempre dietro ai suoi altarini e alle sue processioni. Il babbo invece si abbuiava di giorno in giorno ; forse ricercava le cause che lo avevano ridotto a quello stato : ricerca vana perché le cause trascendevano il suo caso particolare ed investivano una cerchia di responsabilità più larga e profonda.

Infatti i Maiella rivivevano la tragedia della loro classe sociale di nullatenenti, sempre in cerca di un buco per ripararsi dal freddo e di un boccone per non morire di fame. Ma la tragedia di questa classe sociale, che costituiva da sola la grande maggioranza della popolazione, va inquadrata in una più vasta tragedia: la tragedia della Lu­cania, anche oggi la regione più depressa d'Italia. Proiettato su que­sto schermo, lo spettacolo assume proporzioni gigantesche con una folla anonima, ignorante, superstiziosa e spiantata, e un pugno di si­gnori, adusi a tutte le storture del sistema feudale, non ancora ab­battuto dalle leggi giustiziere di Napoleone. Da qui, il malumore latente tra padroni e sudditi, e la lotta, quasi sempre verbale, tra comuni e feudatari.

I feudatari, veri discendenti degli antichi predoni, non contenti di possedere gran parte dei beni immobili allora esistenti, stende­vano le mani rapaci anche sulle terre del demanio che costituivano l'unica risorsa dell'amministrazione comunale, chiamata università, quasi amministrazione dei beni di tutti. Tutti infatti potevano re­...

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